La commedia del Maggi

Carlo Maria Maggi[1], importante, come abbiamo visto, con la sua opera poetica in lingua nella reazione di fine Seicento al barocco e al marinismo soprattutto per la sua fervida ispirazione morale contrapposta alla «lascivia» barocca nel suo doppio significato morale e formale, espresse le sue esigenze rinnovatrici anche nelle poesie dialettali in «meneghino» e nelle quattro commedie pure dialettali: Il barone di Birbanza, Il falso filosofo, Il manco male e I consigli di Meneghino, scritte tra il 1693 e il 1699.

Spirito serio e pensoso, preoccupato di dare alle sue opere un contenuto morale (e un senso di concretezza e di naturalezza opposto alla frivolezza, alla falsità della letteratura barocca), il Maggi mostra già nelle sue poesie dialettali una disposizione naturale al ritratto parlato, a personaggi espressione di una saggezza istintiva e popolare, a caricature bonarie di viziosi, di nobili scioperati ed altezzosi, colpiti come deviazioni da quel buon senso, da quella misura e correttezza che egli riteneva fondamento di una civiltà tradizionale e moderna, equilibrata ed attiva, cosí come di un’arte civile, educativa, nata da un contatto sincero con la vita ed utile alla vita.

Atteggiamento espresso in poesie o in prologhi di commedia[2] e legato a quella ripresa di vita morale, di sincerità e di maggiore attenzione alla realtà che è proprio una delle radici piú profonde della nuova cultura arcadica e che non ha bisogno, per essere considerato valido ed interessante, di tutti quei richiami al Porta, al Manzoni, al moralismo e realismo lombardo che servirono dal De Marchi al Sanesi e soprattutto all’Apollonio per rivendicare la figura dello scrittore milanese e per valutarne positivamente (e spesso con eccessiva esaltazione) l’opera di commediografo.

Senza accettare in tutto la valutazione dell’Apollonio (basata in parte sulle precedenti, notevoli osservazioni del Sanesi e sulla simpatia del Toldo che notò la sua feconda conoscenza del grande commediografo francese e lo considerò il piú vero «precursore» del Goldoni[3]) nella Storia del teatro in italiano e nell’antologia La commedia italiana (in cui I consigli di Meneghino sono riportati come unica commedia prima del Goldoni), si deve dare all’opera comica del Maggi la sua giusta importanza e si deve considerare il suo moralismo come la sua forza e insieme come il suo limite, cosí come la sua attenzione alla realtà del suo tempo, la simpatia per una vita sobria ed attiva del popolo, della borghesia e di una nobiltà consapevole dei suoi doveri e del rinnovamento a cui deve adeguarsi, e la sua concezione vivacemente contenutistica della poesia, sono elementi ben vivi anche se non raggiungono nella sua opera realizzata la forza di veri elementi poetici, non si organizzano in azioni drammaticamente efficaci.

La sua satira (per cui poté sentire con simpatia l’opera di Molière, cosí fecondatrice nell’opera di questi commediografi piú spregiudicati e meno guardinghi dei teorici arcadici), che prende sapore di indulgenza nel suo sguardo bonario piú che sdegnoso, non ha la forza di creare piú che ritratti piacevoli ed arguti, mentre la sua stessa bonaria attenzione alla vita non diventa la poetica simpatia di un Goldoni per gli uomini e per la loro realtà.

E si pensi per la debolezza della sua satira che si limita a ritratti piú gustosi che incisivi (e troppo diluiti nelle loro parlate) a quel Falso filosofo in cui il modello molieriano si scioglie in un personaggio piuttosto melenso e noioso, e si pensi per la limitatezza di risultati anche nella direzione di una vita di ambiente, di un movimento di coro animato da simpatia e da ironia, a quelle rappresentazioni di pettegolezzi femminili che possono interessarci per certe novità di contenuto (conventi di suore portati sulle scene), ma non per la loro effettiva vita artistica, cosí come la stessa voce della saggezza del buon senso popolare impersonato nella maschera di Meneghino è piú suggestiva nelle intenzioni dell’autore che nella realtà della sua loquacità sentenziosa e monotona.

Insomma l’interesse della commedia del Maggi ci appare piú nel suo programma e nei suoi sparsi elementi costitutivi che nel risultato artistico, il quale rimane mediocre e non consente quel rilievo cosí assoluto alla cui luce l’Apollonio limita poi tanto severamente l’opera tanto piú vitale di un Gigli.

Certo l’atteggiamento del Maggi è ricco di interesse specie se confrontato con quello dei commediografi «eruditi» di fronte ai quali la sua cultura (egli fu fautore di classicismo e studioso di «filosofia morale») appare piú aerata da un gusto del popolare (che non mancò del resto neppure al suo conterraneo e contemporaneo Francesco De Lemene, che alla lirica svenevole e melodica congiunse una strana rudezza realistica nella commedia dialettale La sposa francesca) e persino da una considerazione piú spregiudicata della commedia dell’arte da cui non sdegnò di riprendere (specie nel Barone di Birbanza) procedimenti scenici, lazzi piú educati e moralizzati, e l’amore delle maschere nel personaggio di Meneghino, in cui, fra l’altro, va notata la forza di una tradizione locale presente anche nel Gigli, nel Fagiuoli, nel Nelli e assente nelle commedie di restaurazione cinquecentesca e classicista o nelle commedie per letterati.

E ci interessano, nel suo legame con la cultura arcadica e nella sua posizione piú libera della soluzione «erudita», le sue precise posizioni che insieme combattono contro la commedia italo-spagnuola (in cui l’Arcadia vide un pericoloso nemico insinuatosi nella commedia scritta) in nome dell’organicità, della verisimiglianza, della naturalezza[4], e contro la semplice imitazione degli antichi comici:

Desmettí st’antigaia, i me toson,

on temp l’eva del bon,

adess l’è on alter fà;

in scambj de fà rid, fé sbadeggià.

[...]

E poeú quij passaritt,

(fallij) quij parassitt,

quij sciaenn, quij barlafus che van co’ sciansc

adess hin tropp lontan da i nost usanz,

e se lesgen domà par eleganz.

Se nó tocchem sul noeuv,

quanto sia par fà rid emm coppae i oeuv.

Ma, ripeto, quando si passa alla lettura e al giudizio concreto delle commedie i limiti del suo moralismo, della sua saggezza bonaria, della sua satira e della sua simpatia si misurano nel risultato mediocre: il moralismo si fa sentenziosità e finisce per ridurre la stessa forza dell’azione per scopi edificatori troppo scoperti, la saggezza, la simpatia, la satira mancano di incisività e non si fondono (come in Goldoni) in una dimensione poetica unica, in un tono generale, e i personaggi che ne sono la voce non hanno un movimento interno come mancano di un vero movimento scenico.

Si prenda la commedia migliore, I consigli di Meneghino, e già la stessa azione può indicare una intrinseca debolezza comica, una languidezza fantastica che ben corrisponde ad una certa facilità ottimistica del «piissimo Maggi», come al prevalere della sua sentenziosità corrisponde il prevalere delle parlate lunghissime sul vero dialogo e sul ritmo dell’azione. Questa rimane piuttosto un disegno astratto e, se l’intrigo matrimoniale si svolge efficace nei pettegolezzi e nei maneggi di donna Quinzia, boriosa «damassa» preoccupata di dare alla figlia, donna Alba, un partito economicamente vantaggioso, ma piú ancora di stabilire precisi termini contrattuali che salvaguardino il decoro nobiliare della famiglia in un matrimonio borghese che ferisce profondamente il suo stupido orgoglio di aristocratica spiantata, né manca di interesse e di vitalità nella figura bonaria e paterna di Anselmo, il laborioso borghese che si preoccupa della felicità terrena del proprio figlio Fabio, l’azione però si inceppa e si sbiadisce proprio intorno alla figura centrale di Fabio, incerto e volubile fra i suoi desideri mutevoli di affermazione mondana, di gloria militare, e una vocazione religiosa che lo condurrà al chiostro senza una giustificazione e senza quel rovesciamento di comico in drammatico, di frivolezza in serenità superiore che ci si sarebbe potuti aspettare.

Fatuo e inconsistente nei suoi entusiasmi, Fabio vive solo per permettere al saggio servitore Meneghino di opporre alle sue improvvise vocazioni le risposte di un’esperienza disillusa della vita a cui il giovane cede con eccessiva facilità, finché, andato a Roma, per rimandare un matrimonio che non lo soddisfa, e con la scusa di voler vedere la capitale della cristianità, si rifugerà in convento con una evasione dalla vita che non ha il tono di una conversione capace di dare un senso profondo a tutta la commedia.

Sicché la commedia appare viva, piuttosto che in un solido organismo, in una serie di scene e piú di parlate di diversa intensità guastate alla lunga dalla loro eccessiva ripetizione e diluizione, e da quell’aria di saggezza pensosa, ma poco impegnativa, che si traduce artisticamente in una opaca e dolciastra monotonia.

Dunque ricchezza di spunti interessanti (la satira della nobiltà decaduta e boriosa, sfaccendata e occupata solo nei suoi puntigli frivoli, in contrasto con la nuova vita della famiglia borghese rappresentata nella laboriosità del padre di Fabio, la rappresentazione fra bonaria ed ironica dei piccoli intrighi di un convento di monache), ma scarsamente organizzati, e lo stesso motivo del «buon senso» popolare (i consigli di Meneghino), se dà luogo a interessanti sviluppi di temi nuovi (l’antipatia per la guerra e per la vita militare, la satira della fastosa vita romana) legati alla serietà dell’animo del Maggi, non è capace di sostenere un vero personaggio, ché Meneghino, sempre saggio e sicuro nella sua apparente rozzezza, è pure figura scialba, intenzionale ed astratta, come quella del timido Lelio, del saggio Costanzo, e dello stesso Anselmo che solo da lontano può far pensare a certe interpretazioni goldoniane del buon padre, del vecchio e patetico Pantalone.

Sicché, a parte certe parti delle parlate di Meneghino (soprattutto la bella pagina contro la guerra), la commedia raggiunge una efficacia artistica piú vera solo nel ritratto di donna Quinzia e nei suoi discorsi, insaporiti da quel gustoso linguaggio dialettale ma pretenzioso, ed affettato[5], che ne esprime cosí comicamente la natura orgogliosa e vuota, altera e volgare, fra pettegolezzo da comare e diplomazia di un’educazione gentilizia.

E si leggano le scene riportate in appendice, a verificare, pure nell’abbondanza sempre eccessiva, l’arte efficace del Maggi, la possibilità del suo linguaggio nel personalizzare un personaggio comico in un momento di ispirazione piú sincera e nella rara fusione della ironia e dell’intenzione morale.


1 Su di lui come poeta e iniziatore dell’Arcadia nell’Italia settentrionale si veda il paragrafo relativo in questo volume e alla bibliografia ivi indicata si aggiunga ora il saggio di H. Auréas, Les comédies et les poésies dialectales de C.M. Maggi, in «Acme», V, 1952, fasc. 1 e 2.

2 Art, che no iutta al ben,

o che ’l mal non corresg,

l’è perdiment de temp, se non l’è pesg.

3 L’oeuvre de Molière et sa fortune en Italie, Torino 1910: «Celui qui a mérité le plus, peut-être, le nom de précurseur de Goldoni» (p. 346).

4 «Gli spagnuoli hanno introdotto i meravigliosi nodi degli strani avvenimenti, il che veramente pare che diletti il teatro moderno. Or se questo diletto che col ravvisamento dell’inverosimile, almeno appresso ai dotti, sul tosto svaniscono, sia da anteporsi a quello che nasce dall’affetto e dal costume ben imitati, me ne rimetto a chi piú di me se ne intende».

5 Con un simile linguaggio fra dialettale e colto parleranno le dame del Porta e le dame del Belli.